La pearà è un piatto della tradizione veronese, il suo termine sta a significare "pepata"; è una salsa densa, realizzata di pane raffermo grattugiato, midollo di bue, brodo di carne e abbondante pepe.
Della sua originaria composizione non esiste traccia documentaria, perché questo cibo ha visto più varianti nel corso dei suoi molti decenni di vita culinaria veronese e si sono attuate aggiunte di prodotti, come formaggi, o burro, o l’utilizzo di pane tostato e brodo di pollo.
Tutti questi sono complementi degli ultimi decenni nella tradizione popolare, infatti, non si biscottava il pane, non si usava il burro, non si faceva il brodo con il pollo.
L'esecuzione di questo piatto oggigiorno cambia non solo da paese a paese ma, addirittura, nei vari nuclei familiari, peraltro creazioni tutte molto ghiotte.
La pearà è, infatti, gustosa e, non proprio “povera”, come sovente si vuole far credere, perché nelle mense delle famiglie popolari sino alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, non c’erano avanzi di pane e il pepe, una spezia, era costosa.
Nelle famiglie contadine, poi, l’utilizzo del pane non più fresco non era grattugiato ma rammollito in acqua, per non disperdere nulla, e la cottura avveniva con la stessa acqua, magari con l’aggiunta di poco latte, ed era chiamato “panà”, un cibo adatto allo svezzamento dei bambini e degli anziani che avevano problemi di denti.
La stessa legenda sull’origine della pearà la riporta ad una cucina di alto rango, reale, dove il cuoco di Alboino, re dei Longobardi, la inventò perché aveva bisogno di un cibo in grado di ridare forza a Rosmunda, la quale, divenuta per forza moglie di questo re, si stava lasciando morire di fame dopo essere stata costretta a bere dal cranio del padre Cunimondo, re dei Gepidi, e trasformato in coppa dopo che fu ucciso in battaglia dallo stesso suo marito Alboino.
Il racconto vuole che il fatto sia successo nel palazzo-castello che fu di Teodorico a Verona, nel 572, quando la città fu elevata a capitale.
Gli effetti della pearà furono immediati, Rosmunda, ricevuta la forza fisica e morale dalla pearà, decise di organizzare una congiura per eliminare l’odiato marito Alboino.
Con l’aiuto di Elmichi, un nobile del seguito regale, peraltro suo amante, riuscì ad assassinarlo.
Non si fermò qui, Rosmunda, ben alimentata dalla pearà, quando percepì che anche Elminchi stava diventando troppo tracotante lo fece uccidere.
Analisi storica
Gli elementi della nascita della ricetta sono riferiti a una cucina di condizioni elevate, per cavalieri e armigeri, e ben si riporta e si confà a un arcaico piatto in uso nelle unità militari romane, la “Puls” dei legionari, un intriso morbido di acqua calda e farina di cereali, al quale, secondo disponibilità, a fine preparazione si aggiungeva vino, pepe pestato e sale.
Per alcuni secoli questa “dieta” fece parte del pasto militare e, con molta probabilità, giunse a Verona al seguito delle truppe romane che, a cominciare dal II secolo, transitarono e stanziarono in città dopo che il nord Italia divenne teatro di lotte civili.
Queste vicende militari impegnarono il territorio veronese per oltre un secolo e, certamente, il contatto fra truppe e popolazione non può non aver influito anche sulle abitudini alimentari.
La “puls” potrebbe essere stata quindi l’antenato della salsa pearà, che meglio si definì nella cucina medioevale ricca di spezie, che rimasero sulle tavole dei ricchi, come stasus symbol, per meglio insaporire le carni da piuma e da pelo presenti nelle tavole.
Ritornando alla leggenda di Rosmunda vi sono altri elementi da considerare, come la forza fisica e morale che ricette dopo che il cuciniere di corte, probabilmente il capostipite di una lunga serie di cuochi veronesi, la predispose e la mangiò.
Si tratta quindi di un piatto corroborante, costituito da una miscela di sostanze che liberano energia non in una volta sola, ma con una certa gradualità, a mano a mano che le varie reazioni metaboliche si susseguono, accordando benessere fisico senza appesantire stomaco e cervello e, questo, è dato dagli amidi presenti.
Vi è un’altra condizione fondamentale, con questo piatto Rosmunda vinse blocchi e riluttanze, aumentò il proprio desiderio, si assicurò migliori prestazioni e, questo, va certamente attribuito alla presenza del pepe, dalle proprietà vasodilatatori, che ha contribuire all'efficienza passionale di Rosmunda.
La pearà, come tutte le cucine, ha una propria moda e, con il Rinascimento, fu posta da parte. Nelle tavole si presentavano i magiari in bianco, i piatti con abbondante zucchero, alle spezie subentrarono l’erba cipollina, lo scalogno, i funghi, le erbe aromatiche ritenute giustamente più familiari.
Se fu abbandonata dalle tavole dei ricchi la pearà entrò, però, in quelle popolari e, giacché era un po’ dispendiosa, divenne la salsa delle feste e delle occasioni importanti.
Per limitare i costi nella preparazione, la sobrietà popolare aggiunse al preparato la midolla d’ossa, facilmente reperibile nella “bassa rivendita di carni”, le “macellerie del quinto quarto”.
Ecco che la pearà si riabilitò e si riscattò, diventando un’autentica prelibatezza, divenne la portavoce della tradizione culinaria veronese, ne fa rivivere la storia, i sapori e i suoi simboli, specialmente quello dell’amore.
Proprio su quest’ultimo argomento qualche storico ha formulato l’ipotesi che la pearà sia entrata anche da “mezzana” nella storia di Giulietta e Romeo, perché se è riuscita a infiammare di passione Rosmunda e Elminchi, perché non avrebbe dovuto compiere gli stessi effetti tra Giulietta e Romeo?
Lo scrittore veronese Dino Coltro, nel volume "La cucina tradizionale Veneta", racconta che per una realizzazione perfetta pearà è fondamentale una lenta e lunga cottura, che può durare anche ore e si accompagnata al bollito misto, detto anche lesso.
Ecco una filastrocca in dialetto veronese su la pearà
Filastroca pearina
in boca la beca na tantina,
el pan vecio va gratà,
ne la teja el va versà,
zonta el brodo, la miola de bo el sal na presina,
mescola solo na tantina.
Adeso el fogo el fa el so dover,
presia non bisogna aver.
Sora se fa na telarina,
ma soto el boje na tantina.
Le cota, zonta el pepe e tuti a tola,
questa del la pearà l’e la fola.
traduzione
Filastrocca peperina,
la bocca diventa piccantina,
pane vecchio va grattugiato,
nella pentola va versato,
aggiungi brodo, midolla di bue, sale un pizzichino,
rimesta un pochino.
Ora il fuoco fa il suo dovere,
fretta non bisogna avere.
Sopra si forma un crostino,
ma sotto bolle pianino
E’ cotta, aggiungi el pepe a tavola,
questa della pearà è la favola
Rivisitazione interessantissima e gustosissima alla ricetta:
prima di servire unisci un filo di olio extra vergine d’oliva, meglio se Olio Veneto extra vergine d’oliva Dop.